Io Toy Story 3 non sono ancora andato a vederlo. Lo farò sicuramente sabato, consapevole che la Pixar avrà sfornato l'ennesimo capolavoro.
Ad ogni modo, come sempre, queste piccolo spazio digitale è lieto di ospitare un'altra bellissima recensione di Raffaele Sergi.
Recensione, che come avrete intuito dal titolo, è incentrata proprio su Toy Story 3.
Buona lettura!
Lo ammetto: è la prima volta, nella mia breve carriera di recensore cinematografico farlocco, che mi trovo in seria difficoltà nel costruire una degna recensione. "Toy Story 3 - La Grande Fuga" non è un film normale, come tutti gli altri: c'è molto, forse troppo, da prendere in considerazione.
A cominciare da quel primo capitolo targato 1995, che ci fece sognare, proseguendo quattro anni dopo con il suo successore, "Toy Story 2", dove abbiam riso di gusto divertendoci come bambini. Quindici anni di vita che ci hanno visti crescere, maturare. Un'evoluzione costante, sia nostra che dei tempi che ci circondano, sia di chi racconta che di chi ascolta. E così, tramite questo processo naturale di crescita, anche la storia matura e si evolve, per meglio adattarsi a noi, bambini di ieri, finalmente pronti a recepirne il finale.
Cosa strana, l'esser bambini. Una parte di vita innocente, pura, fugace come un fuoco d'artificio, ma altrettanto intensa.
Avevo sette anni, quando vidi per la prima volta "Toy Story". Ne restai affascinato, estasiato. Ed è straordinario constatare come, a distanza di tanto tempo, tale stupore sia rimasto immutato. Certo, più consapevole magari; ma immutato, uguale ad allora.
È un lavoro incredibile, quello che la Pixar è riuscita a svolgere nell'arco di questi quindici anni. Un progresso continuo non solo per quel che concerne la grafica, ma soprattutto per la storia. Basta dare una sola occhiata agli ultimi capolavori che ha sfornato, per rendersene conto: WALL•E ci ha commossi con la sua poesia, UP ci ha fatto piangere con la sua umanità. In "Toy Story 3" troviamo tutto questo, ed altro ancora. Ed è incredibile pensare che una tale carica di emotività arrivi da un film che ha dei giocattoli per protagonisti. Le cose migliori, a volte, arrivano davvero da dove meno te lo aspetteresti.
Il lungometraggio in sé è straordinario. Ogni aspetto fondamentale è come la pagina di un libro scritta e controllata in maniera minuziosa e precisa. La grafica regge senza timore il confronto coi suoi predecessori, regalandoci personaggi umani sempre più realistici nelle fattezze e nelle movenze.
La regia è superlativa, fornendoci talvolta delle inquadrature mozzafiato, montate alla perfezione; resteranno nella memoria, ad esempio, scena iniziale e scena finale del film, diametralmente opposte per stile e costruzione, ma non poi così dissimili nel trasmettere emozioni.
Per non parlare dei personaggi. Oltre ai vecchi giocattoli, oltre ai già conosciuti e collaudati Woody, Buzz e tutta la cricca, vanno ad aggiungersi tutta una nuova serie di toys che, per quanto secondari e con parti misere in termini di tempo, hanno l'incredibile pregio di non scadere nella banalità, trovando un senso proprio all'interno della storia, e facendosi carico di tematiche importanti, quali l'amicizia, la lealtà ed il distacco. Giocattoli che hanno un'anima, un cuore. Che hanno sentimenti umani.
Ma è soprattutto la sceneggiatura a trionfare. Riuscire a realizzare un bel sequel è già di per sé un'impresa non da poco, ma il sequel di un sequel è cosa ardua se non addirittura impossibile. Riuscirci in questo modo, miscelando humor, pathos, citazioni, profondità, azione, dramma, ed anche un pizzico di horror, tanti generi diversi in un unico film di appena novanta minuti, è un lavoro che non merita altro che sinceri applausi. Il tutto, confezionato da una colonna sonora struggente, dolce e armoniosa.
Certo, il film è destinato ad un pubblico estremamente giovane. Ma soprattutto, è destinato a quei tanti che hanno vissuto il tutto sulla propria pelle. A quei tanti che hanno riso, pianto, e che nel frattempo sono cresciuti, senza però smettere di attendere e di sognare.
Perché, in fondo, c'è qualcosa che si spezza per sempre, nel momento di un addio. Un qualcosa di magico, di straordinariamente triste, ma anche di necessario. Può essere un amico che parte, oppure il trasferimento da una casa che ci ha ospitati per una vita, o ancora l'abbandono di un semplice oggetto, un giocattolo magari. Un giocattolo che ci ha accompagnati durante l'infanzia, divenendo ben più di un semplice strumento di intrattenimento per bambini.
Dietro l'addio si nasconde tutto un universo, un mondo che non va esplorato, né compreso, ma accettato: è un qualcosa che rifulge del tutto dalle nostre possibilità, segnando il termine definitivo di un legame che mai più potrà riformarsi, restando solo nel cuore e sopravvivendo solo nel fiume del ricordo.
E allora non possiamo che restare impotenti, mentre assistiamo ad uno spettacolo che, nonostante tutto, continua ad andare avanti, fino alla fine. Come un libro che, pagina dopo pagina, si avvia a quella conclusione che la nostra curiosità ha tanto bramato, e che ora invece speriamo non arrivi mai. O come un film che, dopo lunghe peripezie e tante avventure che abbiamo vissuto insieme, mostra i titoli di coda, salutandoci malinconicamente con la mano.
È lì che l'addio si consuma, illuminando intensamente un'ultima volta un sodalizio che il tempo ha cementificato e che ora, come un fragile vaso, si sgretola in tanti piccoli frammenti. È lì, in quell'interminabile istante, che tutto si brucia lasciando spazio a nient'altro che polvere e ricordi: perché dietro quella mano ci siamo noi, dietro quel saluto c'è il riflesso di un tempo che ci è appartenuto, e che abbiamo perso per sempre. Un passaggio di consegne che, metaforicamente, rappresenta anche il nostro.
Un ultimo sguardo complice, un nostalgico e malinconico cenno di mano. Ed infine, in due semplici parole, il saluto estremo: "Addio, amico."
Continua a farti del male...