Quant’è che non registro un messaggio? Due settimane? Un mese?
Bah, chi cazzo se ne fotte ormai.
Sono morti. Sono morti tutti. Sono rimasto solo io. Ma non sono stati i gialli, no. E’ impossibile che superino le mura del quartier generale della Nato e penetrino nel bunker dove mi trovo ora. No. I miei compagni non hanno retto. Si sono uccisi. Non hanno retto a questo anno di isolamento. Non ce l’hanno fatta.
Eravamo rimasti in dieci, dopo aver ricevuto quel fottuto messaggio due anni fa.
All’epoca, a Bagnoli, eravamo circa una sessantina. Ve lo ricordate, no? Vi avevo detto che noi che eravamo rimasti avevamo reso il nostro quartiere una specie di fortezza impenetrabile dall’esterno. I Gialli non avrebbero mai potuto valicare la montagna di scogli che abbiamo usato per occludere tutte le strade che portano a Bagnoli.
Per circa tre anni siamo riusciti a sopravvivere. Abbiamo vissuto soprattutto pescando. Al comune, c’era questo apparecchio che serviva a desalinizzare l’acqua, e quindi col mare vicino…
Non abbiamo avuto problemi di acqua potabile. Ce la siamo cavata, insomma...
Poi, un giorno, abbiamo sentito questo rumore che squassava l’aria. Un rumore antico, di quelli che non sentivamo da prima della pandemia.
Un elicottero. Viaggiava così a bassa quota che siamo riusciti a vedere il portellone laterale aprirsi, un tizio che si affacciava e che buttava giù una cascata di fogli.
Quando la pioggia di carta finì, e l’aereo era ormai lontano, raccogliemmo i fogli. Era un avviso di evacuazione.
Una cosa colpì tutti, subito. Sull’avviso c’era scritto che dal molo Beverello stava per partire un cargo che avrebbe portato in salvo eventuali sopravvissuti.
Ricordo che successe il parapiglia.
La gente impazzì letteralmente. C’era chi urlava, chi piangeva, chi pensava che forse, da qualche parte, c’era davvero una speranza di salvezza. Il problema, però, era arrivarci, a quel cazzo di molo Beverello.
Eravamo isolati da 3 anni. Non sapevamo com’era la situazione fuori. Di tanto in tanto, qualche Giallo saltava fuori – spesso venivano dalla spiaggia, quindi, forse, erano mostri sospinti dalla corrente -, ma non avevamo la minima idea di cosa ci fosse al centro della città, se non c’era più nessuno, o se era infestata di Gialli.
Quella sera tenemmo una riunione. 50 decisero di andarsene. Io, Marco, Antonio, Salvatore, Marco Valerio, Valeria, Nando, Maria Antonia, Giovanna e Cristina decidemmo di restare.
Non sapemmo più niente di loro. Mi piace pensare che siano riusciti a raggiungere il Molo e adesso siano davvero da qualche parte, al sicuro.
Col senno di poi, fecero bene ad andarsene. Se trovarono la morte, la trovarono subito. Non dovettero subire e affrontare l’orrore che affrontammo noi dopo…
Un paio di mesi dopo la partenza dei nostri amici, la situazione a Bagnoli precipitò di punto in bianco. All’improvviso, dalla spiaggia, cominciarono a spuntare, giorno dopo giorno, gruppi di gialli sempre più numerosi.
All’inizio pensavamo che fossero i soliti corpi sospinti dalla corrente. Solo una mattina, rimasti a fare la guardia proprio nei pressi della spiaggia, vedemmo che non era la corrente a sospingerli. Erano loro che emergevano dal mare.
Vi avevo detto che i Gialli avevano cominciato a nuotare per aggirare le barriere di scogli che ostruivano le strade per arrivare a Bagnoli… Più che nuotare, i Gialli camminavano sul fondale marino e approdavano alla spiaggia.
Mi sono sempre chiesto come mai siamo riusciti a stare 3 anni in santa pace, e poi, di punto in bianco, abbiamo avuto questo assalto continuo e ininterrotto. Continuo a chiedermelo tutt’oggi. Perché risposte non ce ne sono.
Se le prime volte siamo riusciti a cavarcela spaccando la testa a quei mostri con mezzi di fortuna – io avevo una katana che avevo comprato ad una fiera fumettistica -, quando capimmo che ci saremmo presto trovati frotte di 50-60 gialli alla volta avevamo due opzioni: scappare, o scappare.
Marco Valerio propose di raggiungere il porticciolo di Coroglio. Da Bagnoli riuscivamo a vedere che erano stranamente ancorate ancora diverse barche. Antonio disse che era pericoloso uscire così allo scoperto, e che se i gialli strisciavano sul fondo del mare, era pericoloso starsene sopra una barca.
Decidemmo di provare a rifugiarci alla Nato. Quando avevamo chiuso le strade, avevamo notato che la base era stata completamente abbandonata a sé stessa. Cosa molto strana, in effetti…
Lungo viale Kennedy, il vialone che porta alla base, il giorno in cui decidemmo di andare non c’erano gialli, per fortuna. Le entrate erano tutte sigillate, i cancelli chiusi, e le mura, alte una decina di metri, presentavano in cima pali aguzzi e filo di ferro.
Riuscimmo a scavalcare e a penetrare senza eccessiva difficoltà.
Dentro, la base, immensa, era completamente deserta. Non c’era nessuno.
Impiegammo più di una settimana a perlustrarla tutta. I palazzi, le abitazioni, gli uffici, i negozi e i centri commerciali erano stati tutti lasciati a loro stessi.
Il bunker lo trovammo all’inizio della seconda settimana di permanenza, sotto quello che era proprio il centro comandi ufficiale della base.
Marco Valerio si era messo ad armeggiare coi computer, per vedere, dopo 3 anni, se la Rete teneva ancora. Inutile dire che mentre eravamo isolati a Bagnoli, la rete elettrica era totalmente in disuso. Alla Nato, invece, teneva ancora, merito probabilmente dei pannelli solari piazzati un po’ ovunque lungo la base e sui tetti degli edifici.
Fu proprio in quel momento che uno dei pannelli traslucidi, che formavano le mura di quella sala, venne avanti, scivolò sulla destra, e rivelò un passaggio formato da un lungo corridoio.
L’attraversammo.
Il corridoio, illuminato da neon, e ricoperto da pannelli tutti impiastricciati, dopo una curva a gomito sulla destra cominciava ad inclinarsi. Scendemmo per una decina di minuti, e ci trovammo davanti a questo portone d’acciaio, con una di quelle manopole rotonde che si vedono soprattutto nei film dei sottomarini.
L’aprimmo.
Entrammo.
Eravamo all’interno di una stanza ampia e quadrata. C’era un’altra porta, uguale a quella che avevamo appena aperto, sulla parete opposta. Aprimmo anche quella.
Ci trovavamo all’interno del bunker che ci avrebbe ospitato per più di un anno. Era immenso.
E’ immenso.
Capimmo che qua sotto potevamo sopravvivere anni e anni.
C’era cibo liofilizzato in quantità, acqua desalinizzata grazie a un impianto identico a quello presente all’interno del comune, e che probabilmente era collegato direttamente al mare.
Sopravvivemmo.
Di tanto in tanto uscivamo fuori, ma preferivamo rimanere chiusi qui sotto. Non so perché, forse avevamo paura. Sapevamo che quei dannati mostri non avrebbero mai potuto scavalcare i muri e i cancelli della base, ma all’epoca avevamo paura.
Forse è stata colpa della solitudine, forse dell’angoscia, forse dell’isolamento. Ma invece di rilassarci e stare un po’ più tranquilli, abbiamo cominciato a diventare paranoici. Quando uscivamo fuori dal bunker, indossavamo maschere antigas. Non sapevamo se il morbo poteva essere trasmesso anche per via aerea, io non lo so tutt’oggi. Pensandoci, è stata una cosa stupidissima. Siamo stati 3 anni fuori, senza mai “ammalarci”, e ora che eravamo al sicuro, avevamo più paura di prima.
Siamo stati più di anno così. Siamo sopravvissuti, come sapete. Magari li avete visti, magari no, ma io i miei messaggi tramite web li ho mandati.
Ho visto pure che l’ultimo non è arrivato. La linea era assai disturbata l’ultima volta. Quel messaggio di quel ragazzo si è sovrapposto al mio…Ecco perché questa volta ho deciso di registrare prima su una videocamera normale, prima di metterla sul web. Così sarò sicuro che questa volta, il messaggio arriverà.
Vaffanculo a questa maschera di merda. Vaffanculo a tutto!
Io ho deciso: domani uscirò fuori di qui. Sono da solo. I miei compagni si sono tolti la vita. Io no. Non ho voluto. Voglio continuare a vivere. Finchè potrò.
Domani uscirò. Devo vedere con i miei occhi com’è la situazione fuori.
Porterò questa videocamera. Così, se mi dovesse succedere qualcosa, chi la troverà, se e quando sarà tutto finito, saprà come sono andate le cose.
Qui è sempre Angelo Cavallaro che parla.
Sopravvivete, se potete.
Io farò altrettanto.
Bah, chi cazzo se ne fotte ormai.
Sono morti. Sono morti tutti. Sono rimasto solo io. Ma non sono stati i gialli, no. E’ impossibile che superino le mura del quartier generale della Nato e penetrino nel bunker dove mi trovo ora. No. I miei compagni non hanno retto. Si sono uccisi. Non hanno retto a questo anno di isolamento. Non ce l’hanno fatta.
Eravamo rimasti in dieci, dopo aver ricevuto quel fottuto messaggio due anni fa.
All’epoca, a Bagnoli, eravamo circa una sessantina. Ve lo ricordate, no? Vi avevo detto che noi che eravamo rimasti avevamo reso il nostro quartiere una specie di fortezza impenetrabile dall’esterno. I Gialli non avrebbero mai potuto valicare la montagna di scogli che abbiamo usato per occludere tutte le strade che portano a Bagnoli.
Per circa tre anni siamo riusciti a sopravvivere. Abbiamo vissuto soprattutto pescando. Al comune, c’era questo apparecchio che serviva a desalinizzare l’acqua, e quindi col mare vicino…
Non abbiamo avuto problemi di acqua potabile. Ce la siamo cavata, insomma...
Poi, un giorno, abbiamo sentito questo rumore che squassava l’aria. Un rumore antico, di quelli che non sentivamo da prima della pandemia.
Un elicottero. Viaggiava così a bassa quota che siamo riusciti a vedere il portellone laterale aprirsi, un tizio che si affacciava e che buttava giù una cascata di fogli.
Quando la pioggia di carta finì, e l’aereo era ormai lontano, raccogliemmo i fogli. Era un avviso di evacuazione.
Una cosa colpì tutti, subito. Sull’avviso c’era scritto che dal molo Beverello stava per partire un cargo che avrebbe portato in salvo eventuali sopravvissuti.
Ricordo che successe il parapiglia.
La gente impazzì letteralmente. C’era chi urlava, chi piangeva, chi pensava che forse, da qualche parte, c’era davvero una speranza di salvezza. Il problema, però, era arrivarci, a quel cazzo di molo Beverello.
Eravamo isolati da 3 anni. Non sapevamo com’era la situazione fuori. Di tanto in tanto, qualche Giallo saltava fuori – spesso venivano dalla spiaggia, quindi, forse, erano mostri sospinti dalla corrente -, ma non avevamo la minima idea di cosa ci fosse al centro della città, se non c’era più nessuno, o se era infestata di Gialli.
Quella sera tenemmo una riunione. 50 decisero di andarsene. Io, Marco, Antonio, Salvatore, Marco Valerio, Valeria, Nando, Maria Antonia, Giovanna e Cristina decidemmo di restare.
Non sapemmo più niente di loro. Mi piace pensare che siano riusciti a raggiungere il Molo e adesso siano davvero da qualche parte, al sicuro.
Col senno di poi, fecero bene ad andarsene. Se trovarono la morte, la trovarono subito. Non dovettero subire e affrontare l’orrore che affrontammo noi dopo…
Un paio di mesi dopo la partenza dei nostri amici, la situazione a Bagnoli precipitò di punto in bianco. All’improvviso, dalla spiaggia, cominciarono a spuntare, giorno dopo giorno, gruppi di gialli sempre più numerosi.
All’inizio pensavamo che fossero i soliti corpi sospinti dalla corrente. Solo una mattina, rimasti a fare la guardia proprio nei pressi della spiaggia, vedemmo che non era la corrente a sospingerli. Erano loro che emergevano dal mare.
Vi avevo detto che i Gialli avevano cominciato a nuotare per aggirare le barriere di scogli che ostruivano le strade per arrivare a Bagnoli… Più che nuotare, i Gialli camminavano sul fondale marino e approdavano alla spiaggia.
Mi sono sempre chiesto come mai siamo riusciti a stare 3 anni in santa pace, e poi, di punto in bianco, abbiamo avuto questo assalto continuo e ininterrotto. Continuo a chiedermelo tutt’oggi. Perché risposte non ce ne sono.
Se le prime volte siamo riusciti a cavarcela spaccando la testa a quei mostri con mezzi di fortuna – io avevo una katana che avevo comprato ad una fiera fumettistica -, quando capimmo che ci saremmo presto trovati frotte di 50-60 gialli alla volta avevamo due opzioni: scappare, o scappare.
Marco Valerio propose di raggiungere il porticciolo di Coroglio. Da Bagnoli riuscivamo a vedere che erano stranamente ancorate ancora diverse barche. Antonio disse che era pericoloso uscire così allo scoperto, e che se i gialli strisciavano sul fondo del mare, era pericoloso starsene sopra una barca.
Decidemmo di provare a rifugiarci alla Nato. Quando avevamo chiuso le strade, avevamo notato che la base era stata completamente abbandonata a sé stessa. Cosa molto strana, in effetti…
Lungo viale Kennedy, il vialone che porta alla base, il giorno in cui decidemmo di andare non c’erano gialli, per fortuna. Le entrate erano tutte sigillate, i cancelli chiusi, e le mura, alte una decina di metri, presentavano in cima pali aguzzi e filo di ferro.
Riuscimmo a scavalcare e a penetrare senza eccessiva difficoltà.
Dentro, la base, immensa, era completamente deserta. Non c’era nessuno.
Impiegammo più di una settimana a perlustrarla tutta. I palazzi, le abitazioni, gli uffici, i negozi e i centri commerciali erano stati tutti lasciati a loro stessi.
Il bunker lo trovammo all’inizio della seconda settimana di permanenza, sotto quello che era proprio il centro comandi ufficiale della base.
Marco Valerio si era messo ad armeggiare coi computer, per vedere, dopo 3 anni, se la Rete teneva ancora. Inutile dire che mentre eravamo isolati a Bagnoli, la rete elettrica era totalmente in disuso. Alla Nato, invece, teneva ancora, merito probabilmente dei pannelli solari piazzati un po’ ovunque lungo la base e sui tetti degli edifici.
Fu proprio in quel momento che uno dei pannelli traslucidi, che formavano le mura di quella sala, venne avanti, scivolò sulla destra, e rivelò un passaggio formato da un lungo corridoio.
L’attraversammo.
Il corridoio, illuminato da neon, e ricoperto da pannelli tutti impiastricciati, dopo una curva a gomito sulla destra cominciava ad inclinarsi. Scendemmo per una decina di minuti, e ci trovammo davanti a questo portone d’acciaio, con una di quelle manopole rotonde che si vedono soprattutto nei film dei sottomarini.
L’aprimmo.
Entrammo.
Eravamo all’interno di una stanza ampia e quadrata. C’era un’altra porta, uguale a quella che avevamo appena aperto, sulla parete opposta. Aprimmo anche quella.
Ci trovavamo all’interno del bunker che ci avrebbe ospitato per più di un anno. Era immenso.
E’ immenso.
Capimmo che qua sotto potevamo sopravvivere anni e anni.
C’era cibo liofilizzato in quantità, acqua desalinizzata grazie a un impianto identico a quello presente all’interno del comune, e che probabilmente era collegato direttamente al mare.
Sopravvivemmo.
Di tanto in tanto uscivamo fuori, ma preferivamo rimanere chiusi qui sotto. Non so perché, forse avevamo paura. Sapevamo che quei dannati mostri non avrebbero mai potuto scavalcare i muri e i cancelli della base, ma all’epoca avevamo paura.
Forse è stata colpa della solitudine, forse dell’angoscia, forse dell’isolamento. Ma invece di rilassarci e stare un po’ più tranquilli, abbiamo cominciato a diventare paranoici. Quando uscivamo fuori dal bunker, indossavamo maschere antigas. Non sapevamo se il morbo poteva essere trasmesso anche per via aerea, io non lo so tutt’oggi. Pensandoci, è stata una cosa stupidissima. Siamo stati 3 anni fuori, senza mai “ammalarci”, e ora che eravamo al sicuro, avevamo più paura di prima.
Siamo stati più di anno così. Siamo sopravvissuti, come sapete. Magari li avete visti, magari no, ma io i miei messaggi tramite web li ho mandati.
Ho visto pure che l’ultimo non è arrivato. La linea era assai disturbata l’ultima volta. Quel messaggio di quel ragazzo si è sovrapposto al mio…Ecco perché questa volta ho deciso di registrare prima su una videocamera normale, prima di metterla sul web. Così sarò sicuro che questa volta, il messaggio arriverà.
Vaffanculo a questa maschera di merda. Vaffanculo a tutto!
Io ho deciso: domani uscirò fuori di qui. Sono da solo. I miei compagni si sono tolti la vita. Io no. Non ho voluto. Voglio continuare a vivere. Finchè potrò.
Domani uscirò. Devo vedere con i miei occhi com’è la situazione fuori.
Porterò questa videocamera. Così, se mi dovesse succedere qualcosa, chi la troverà, se e quando sarà tutto finito, saprà come sono andate le cose.
Qui è sempre Angelo Cavallaro che parla.
Sopravvivete, se potete.
Io farò altrettanto.
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