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Suicidarsi a 30 anni: quando vivere non è un obbligo

Ho letto questa lettera agghiacciante di Michele, un trentenne (uno come me) che si è tolto la vita.
La lettera la potete leggere QUI.
E il mio sensei Davide Mana mi ha messo in guardia: “Io non me la sento di mettermi a sindacare sulle sue osservazioni, o di offrire la mia versione.”
Personalmente, da trentenne, credo che una riflessione vada fatta, per il semplice fatto che, da coetaneo di Michele, vivo tutti i giorni paure, incertezze e insicurezze (ormai fisiologiche) di quella che i #massimiesperti hanno denominato, senza appello, “la generazione derubata”.
Ma derubata di cosa?


Del futuro? Del pensiero libero? Della felicità?
Io credo di no.
Perché penso che la mia generazione è stata derubata del diritto alla normalità.

I nostri genitori ci hanno cresciuti (e pasciuti) in un mondo nel quale il successo era il metro di comparazione per tutto. Ci hanno abituati a pensare a un mondo (vecchio) nel quale la stabilità era l’obiettivo principale, e nel quale, se avessimo studiato, ci fossimo comportati “come si deve” e avessimo raggiunto determinati risultati, tutto ci sarebbe stato dovuto.

Casa.
Macchina.
Posto fisso.
Amore.
Felicità.



Abbiamo visto – e lo vediamo tutti i giorni – che le cose non sono andate affatto così, perché “il cambiamento è l'unica cosa permanente e l'incertezza è l'unica certezza”.

Non voglio arrivare a dire che lo studiare, oggi, non serve a niente.
Lo studio (inteso proprio come l’insieme di un determinato numero di tecniche che consentono di padroneggiare una disciplina – aggiungo: “che ci piace”) penso sia uno degli aspetti più interessanti (e fondamentali) della nostra vita.
Approfondire un campo specifico di studio – sia esso la Storia, la Filosofia, la Matematica, (o perché no) il funzionamento degli algoritmi di un Blog, il SEO di YouTube o i trend di mercato di Amazon – non fa che migliorarci e regalarci enormi soddisfazione dal punto di vista personale.


Eppure siamo cresciuti in un mondo nel quale il sistema di valori morali impartiti dai nostri genitori, unito alle conoscenze conseguite grazie allo studio, serve a poco.
Per non dire “a nulla”.
Volendo snaturare completamente una delle frasi più belle di Batman Begins, e piegarle al modo di pensare tipico dei nostri giorni, “Non è tanto chi sono; quanto quello che faccio, che mi qualifica”.

E allora non importa se la nostra generazione è la più qualificata degli ultimi 50 anni*.
Non importa se la “generazione derubata”, nonostante lauree, Master, dottorati e post-dottorati è destinata ad essere più povera della generazione dei suoi genitori.
Se non riusciamo a mettere conoscenze e competenze al servizio di un “qualcosa”, e incanalarli in una attività che conduca a uno sfavillante successo (da mostrare, tra le tante cose – come fosse una medaglia – su blog, youtube, social network, internet) siamo niente.
Siamo dei falliti.
Dei rifiuti schiacciati dalla società che non hanno saputo coltivare il proprio talento.
Perché oggi è il successo che conta davvero, assieme al “come” ci vedono gli altri.


Come dicevo sopra, abbiamo perso il diritto di essere “normali”.
Vogliamo essere tutti dei novelli Steve Jobs, perché siamo stati abituati a pensare che saremmo divenuti ricchi, famosi, intelligenti e idolatrati solo per le nostre capacità.

La realtà, invece, ci ha colpito duro.
Se non facciamo quello per cui abbiamo studiato, se non diventiamo ricchi, famosi, intelligenti e idolatrati, siamo degli zero.
Siamo niente.
Siamo delle persone che hanno sprecato il proprio tempo.
Delle merdacce.

Quante volte ci siamo sentiti dire: “Hai visto Tizio cosa ha fatto? Perché non lo fai anche tu?”, sapendo che Tizio è un emerito coglione, o assistito alle imprese di Caio, che senza un apparente talento ha “Ricchezza, Fama e Potere”?


Forse dobbiamo semplicemente fare quello che vogliamo, senza pensare ad altro. E nel farlo, dobbiamo imparare ad accontentarci di quello che abbiamo, e accettarci per quello che siamo. Il che non significa vivere un’esistenza apatica e vuota, abbandonandoci al lassismo perché tanto “non cambierà mai nulla”.

Pretendere da noi stessi il massimo in quello che facciamo è doveroso, ma misurare la nostra esistenza in base a un’idea fasulla di “successo”, oltre all'idea distorta di ciò che gli altri pensano di noi (e della nostra vita) è aberrante.
Essere felici della propria vita, forse (forse) significa proprio essere consapevoli di aver fatto tutto quello che abbiamo fatto al meglio e al massimo delle nostre capacità.
Al netto degli obiettivi raggiunti.

E, per quanto paradossale possa apparire, essere felici può significare anche avere anche la libertà di pensare, come ci dice Michele, che quando ce l’abbiamo messa tutta, ma stiamo male per non essere stati in grado di raggiungere i risultati che speravamo, vivere non può essere un obbligo.

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*Nonostante sia di qualche giorno fa la lettera di 600 professori universitari, che si lamentano del fatto che i laureandi commettono orrori ortografici degni di un bambino di terza elementare. Il che dovrebbe farci riflettere sulla piaga dell’analfabetismo funzionale, che ha colpito la generazione successiva alla mia – eh, sì, inizio a pensare e parlare come i vecchi perché SONO vecchio.

36 commenti:

  1. È importante parlare della scelta di Michele. Molte persone credono che il suicidio sia un atto disperato di qualcuno che si è arreso. Può darsi. Ma io credo che sia, soprattutto, una scelta lucida che merita rispetto e, quando ci viene consegnata una lettera del genere, è nostro dovere rifletterci su.

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    1. E' il motivo per il quale ho deciso di scrivere qualcosa. Credo sia doveroso, di tanto in tanto, accantonare "le cazzate", fermarci e discutere anche di qualcosa di un poco più serio.

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  2. Hai ragione, non abbiamo più la normalità: la normalità degli anni '80 e '90 in cui siamo cresciuti.
    E' che nessuno poteva aspettarsi una cosa simile, qualche anno fa.
    E noi purtroppo siamo quelli che soffriranno di più, perché chi è nato dopo di noi già sa qual è la situazione e si comporterà di conseguenza.
    Noi invece abbiamo studiato per come ci si immaginava potessimo essere, e così non è stato.

    Però, credo, che siamo anche quelli che possono ingegnarsi maggiormente.
    Ho letto la lettera, mi ritrovo davvero in tante frasi di Michele.
    Se ripenso alla mia vita, le soddisfazioni lavorative sono sprazzi, qua e là, in un percorso minato e precario.
    Idem tutto il resto. Ma ci sto, sono qui, fedele al mio motto: nel dubbio, divertiti.

    Moz-

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    1. Più che altro il guaio "nostro" è che ci hanno insegnato che bisognava vivere una vita "precostituita". Non è andata così.
      Purtroppo - o per fortuna, dipende da che punto di vista si voglia guardare la faccenda.

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    2. Purtroppo, se pensiamo di essere ancora negli anni '80.
      Per fortuna, se siamo tipo alla into the fottuto wild.

      Moz-

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  3. Molto molto triste. Paradossalmente siamo contemporaneamente la generazione che ha perso la normalità e che considera ogni centimetro in meno al successo assoluto un fallimento imperdonabile. Stiamo giocando la vita a modalità hard, ma magari questo ci renderà dei giocatori più esperti dei nostri predecessori!

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  4. Per quanto mi riguarda, è verro insultato per questo, io credo che qualsiasi riflessione, qualsiasi posizione, qualsiasi esperienza di questo ragazzo sia stata resa priva di significato dalla scelta che ha fatto.
    Non c'è cosa peggiore che togliersi la vita.

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    1. Io sono molto più "relativista". Abbiamo la libertà di fare tutto, anche di decidere la nostra morte.
      Ma, come dicevo anche altrove, è una questione di sensibilità.

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  5. Non sono d'accordo con la lettera. Il fatto di essere stati derubati del futuro è una cosa che non è successo solo a noi. Non credo che mio nonno si aspettasse o fosse preparato a combattere nelle trincee della prima guerra e poi di nuovo nella seconda, ha lavorato come un asino in campagna (anche per lavori stagionali) per mantenere moglie e due figli. E dare ragione a uno che si arrende perché il mondo non è come gli era stato promesso mi sembra dare uno schiaffo a mio nonno e a tutte le persone che ogni giorno si distruggono per "tirare" avanti per avere almeno sprazzi di felicità.

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    1. Non credo sia una questione di ragione o di torto, bensì di sensibilità. Vivaddio, ognuno ha la propria. :)

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  6. Purtroppo ho imparato ad "accontentarmi" di quello che faccio e che sono qualche anno fa, dopo un anno intero passato tra dottori, crisi di pianto e genitori terrorizzati al minimo ritardo con cui arrivavo a casa. Causa scatenante? Eh, l'ho scoperta una volta "guarita", se di guarigione si può parlare, ed era proprio un'innocua conversazione con qualcuno pronto a dire "Hai visto Tizio cos'ha fatto? Perché non lo fai anche tu? Perché intelligente come sei ti accontenti di quello che hai? Ma non ti senti svilita, ma non ti senti inutile, ma (fondamentalmente) non ti vergogni di essere arrivata a trent'anni e aver buttato la tua vita nel cesso?".

    No comment. Dico solo che rispetto ampiamente questo ragazzo. Nessuno ci obbliga, in effetti, a sopportare questa situazione, che almeno la libertà dev'essere sacrosanta, anche quella di rinunciare. Dispiace solo che Michele non sia riuscito a trovare la felicità in seno alla famiglia e agli amici e chissà quanto senso di colpa stanno provando ora loro, davanti a questa tragedia.

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    1. Penso che se facessimo una seduta terapeutica di gruppo, noi trentenni, uscirebbero fuori, bene o male, gli stessi problemi, le stesse ansie, le stesse paure.

      Io su molte cose ammetto di essere "fortunato", sono capace di farmi scivolare via brutte cose/negatività compulsive.
      Raramente mi arrabbio, ancor più raramente penso a ciò che le persone possono pensare di me.

      Non conto le volte che mi hanno detto "Sei sprecato a fare questo, perchè non provi a fare...?" oppure "Hai visto Tizio? Dovresti fare come lui! Cioè, quello è uno scemo, tu no, perchè lui fa cose e tu no?". E in tutta onestà, non me n'è mai fregato nulla. :)

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  7. Io di anni ne ho cinquanta fra tre mesi, e sono nella esatta situazione descritta da Michele nella sua lettera.
    Ho una laurea e un dottorato, una manciata di master, una lista di esperienze lunghe un braccio, parlo fluentremente tre lingue e malamente altre due, e dovrei essere morto.
    Dovrei essere morto perché per me non c'è posto, come non c'è posto per mio fratello che di anni ne ha quarantacinque, e anche lui ha esperienze e competenze diversissime.
    Perché ci è stato chiesto di essere bravi, e siamo stati bravi.
    Ci è stato chiesto di acquisire competenze, e le abbamo acquisite.
    Ci è stato chiesto di essere flessibili, e lo siamo stati.
    E ora siamo dei vecchi, con "troppe qualifiche", che "non sono stati capaci di trovarsi un posto fisso e farsi una famiglia" - e questo ci condanna al nulla.
    Da otto mesi viviamo in due con 400 euro, e quando salterà il prossimo contratto per una traduzione o un articolo, soddisferemo le condizioni richieste: saremo morti davvero.
    O in coda alla Caritas, in attesa di morire.
    Ma ancora non mi sento di esprimere un giudizio sul gesto di Michele - però credo che esprimerò un giudizio, nei prossimi giorni, sul paese che ha spinto Michele a questo gesto.
    Grazie del post, Sommobuta-sama.

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    1. Sensei, tu sai da tempo quello che penso che tu e tuo fratello dovreste fare.
      Quassù vi accoglierebbero a braccia aperte.
      (e non solo quassù)
      :)

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    2. Angelo, io e mio fratello sono oto mesi che combattiamo per riuscire a fuggire, ma ci sono cose (come le banche) che ci tengono qui. Io in UK ci ho vissuto, e ci tornerei strisciando sulla lingua, ma in questo momento non posso.
      Ma ci si vede appena la situazione si farà più disperata (ormai non manca molto).

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  8. Da 49enne, io faccio parte della generazione precedente alla vostra; vorrei fare qualche osservazione, che prescinde dalla scelta che ha fatto Michele. La generazione che adesso ha tra i 20 e i 30 anni sta pagando errori in serie, che risalgono fino agli anni ’80, e scelte scellerate perseguite con allucinante convinzione negli ultimi 15 anni. Quanto sto dicendo si riferisce in particolare all’Italia ma potrebbe essere tranquillamente trasposto in altri paesi, non solo in Europa.
    Parto dal fondo, dal combinato disposto tra riforme del mercato del lavoro e della previdenza. Alla generazione citata prima è stato de facto negato un accesso a lavori stabili, in un contesto dove di lavoro ce n’è sempre meno. Con la concomitanza delle riforme previdenziali (le ultime due, per capirci), si va anche a indirizzare un futuro dove la pensione sociale sarà comunque superiore a quella effettivamente maturata. In pratica, la generazione viene marginalizzata dall’inizio alla fine del suo ciclo vitale. Questo non influenza “solo” la generazione in questione ma va a limitare la prossima (e chi fa figli in queste condizioni?) e a gravare sulla precedente (se no chi li aiuta?). In pratica, stiamo parlando di un suicidio collettivo.
    Antidoti? Certo, ce ne sono. Specialmente se si riesce ad investire in prospettiva sul futuro di questo paese. Ma chi lo dovrebbe fare, lo Stato, non ha i mezzi per farlo dato il peso di 2200+ miliardi di Euro di debito pubblico. Ci sarebbe il privato, vero? Devo davvero parlare degli industriali italiani? Poi c’è l’opzione principe, il trasferirsi in altri lidi. Ottima idea, sicuramente molto stimolante. Non semplice se non si è seguito un percorso formativo adeguato e/o se ci sono esigenze diverse da quelle professionali (famiglia, tanto per dirne una).

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  9. Analisi (secondo me) magistrale, sono d'accordo con ogni parola. Ho letto la lettera di Michele e potrei averla scritta io: le sue idee sono le mie, e ammetto anche di aver pensato spesso al suicidio. Non sono mai arrivato a tanto e probabilmente non ci arriverò nemmeno in futuro, ma non sono una persona che vive bene.

    Purtroppo, quello di oggi è un brutto mondo, specie per chi dimostra anche solo un briciolo di sensibilità in più. Colpa della crisi, dell'economia, della politica? In parte sì, è sicuro. Ma in realtà io penso che sia principalmente delle persone che ci stanno intorno. Stanno sempre tutti a giudicarci e a dirci, secondo la loro personale visione (spesso errata e ancorata a principi ormai datati) come dobbiamo vivere la nostra vita, specie se noi invece vogliamo fare scelte controcorrente.

    Almeno, per me è così: io do la colpa del mio vivere male a tante persone - me compreso - ma soprattutto ai miei genitori. Non hanno fatto altro che trattarmi da fallito da quando ho abbandonato l'università - scelta fatta perché un esaurimento nervoso ed emotivo legato a cyberbullismo e a questioni di cuore, non certo perché non mi piaceva studiare.

    Invece di essere comprensivi, da allora mi hanno fatto sentire un rifiuto umano - e continuano a farlo. Quando non avevo un lavoro, mi paragonavano continuamente ai miei amici, quelli che tutti i sabati sera finivano ubriachi a vomitare per strada, ma intanto avevano un lavoro - evidentemente da astemio disoccupato non valevo quanto loro. E poi quando ho trovato (o meglio mi sono creato) un lavoro hanno continuato imperterriti: sarà perché fin'ora non mi ha portato molti soldi (anche se recenti sviluppi mi portano a sperare in una svolta positiva prossima).

    Perché lo fanno? Perché non mi giudicano per la persona che sono. Non mi giudicano perché ho una webzine musicale di discreto successo, che piace a tutti quelli che ci si sono imbattuti (o almeno così sembra). Non mi giudicano per il fatto che mi piace scrivere racconti, né mi considerano meglio per il fatto che io sia abbastanza bravo nel farlo da arrivare nelle prime posizioni di un concorso, come capitato di recente. Sono tutte stronzate per loro: le uniche cose che contano solo quelle che portano soldi. E se non riesco a farne abbastanza, sono un fallito.

    La mia depressione cronica parte proprio da lì. Probabilmente è per questo che non c'è persona che odi di più di quelle che non si tengono i propri giudizi per sé. Si tratta del motivo per cui ho tagliato i ponti con la maggior parte della mia famiglia. E tra l'altro è il motivo per cui quando la gente giudicano "stupida" la scelta del suicidio di Michele mi sale la bile. Buon per loro che non sanno cos'è la depressione (altrimenti non sarebbero così duri). E come si permettono di giudicare la scelta di una persona senza conoscerla, senza sapere quanto soffriva? Sono probabilmente gli stessi giudizi che lo hanno portato a una scelta così estrema.

    Penso che hai ragione quando dici che dovremmo fare solo quello che ci piace. Purtroppo però spesso la pressione sociale è difficile da ignorare. Penso quindi che prima di poter vivere più in pace, la "brava gente" dovrebbe tenersi i suoi giudizi per sé. Ma sono sicuro che è solo un sogno utopico che non si avvererà mai. E che presto quasi nessuno si ricorderà più della lettera di Michele. Mi spiace, Sommo, io non sono cautamente ottimista come te :) .

    P.S. scusa lo sfogo/papiro da millemila parole, comunque. Mi sa che così ti ho depresso tutto il blog :D . Ma purtroppo, quando parto non riesco a fermarmi.

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    1. Mi casa es tu casa. Lo sai. Sei sempre il benvenuto qui. :)

      Vado un po' per la tangente. Il "fare quello che ci piace" non significa "cazzeggiare 24 ore su 24". Nel senso che anche io, come tutti, ho il mio lavoro "A" quotidiano che mi tiene impegnato 6 ore al giorno, 6 giorni su 7, come tutti.

      Ma forse, a differenza di molti, anche se è un lavoro che non ha nulla a che fare con ciò che ho studiato, è un lavoro che non mi dispiace - e che mi permette di campare (e potermi dedicare al "Lavoro B", che è quello che mi piace).

      Non si tratta nemmeno di ottimismo (sono tra i peggiori fatalisti al mondo, penso al meglio preparandomi al peggio). Credo sia proprio il "come sono fatto io". O forse boh, scherzando coi miei amici dico sempre che sono diventato "oltre lo Zen". Arrabbiarsi o prendersela per le cose "futili" non ha senso, stare male per i giudizi degli altri, nemmeno.

      Io posso solo farti un grandissimo "in bocca al lupo", sperando che ci sia la svolta positiva di cui mi hai scritto qui.
      Te lo auguro di cuore. :D

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    2. Sì, ovviamente quando parlavo di "fare quello che ci piace" intendevo anche io lo stesso. E anche io posso dire che seppur non lo ami così tanto, il mio lavoro (imprenditore/negoziante) in fondo non è male. Ci sono parti che non mi piacciono, ma in fondo ha anche dei lati positivi e delle soddisfazioni :) .

      Per il fatto di non prendersela, ti ammiro. Io ci provo e spesso ci riesco anche - per esempio se mi arriva un insulto sul blog, non mi fa più né caldo né freddo :D . Ci sono frangenti però su cui non ci riesco, anche se magari col senno di poi sono delle stupidaggini che non meritano di arrabbiarsi.

      Comunque sia, grazie per gli auguri ^_^ . Ne ho bisogno :D .

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  10. Ho compiuto 30 anni un mese fa e per me è già un traguardo, io ho una visione della vita alterata, per me è qualcosa di sacro in quanto la mia, per colpa di una malattia genetica, si spegnerà nel giro di una decina di anni o poco più. Ho vissuto sulla mia pelle anche l'esperienza di una persona cara che si è tolta la vita (mio padre) e di una amica con la mia stessa malattia che l'ha persa a 24anni lottando fino all'ultimo, letteralmente, respiro. Io sento la mia vita andare via ogni giorno, perchè la fibrosi cistica mi sta lentamente togliendo il respiro e per rallentarla devo imbottirmi di medicine, fare ricoveri in ospedale, cure che distruggono il corpo, fisioterapia quotidiana... Tutto questo solo per andare avanti e leggere di un ragazzo, molto probabilmente fisicamente sano che si arrende per così, passatemi il termine, poco mi disorienta e per assurdo non mi da dispiacere per lui, l'ho provato per i suoi genitori e amici che ora staranno male per una sua scelta decisamente drastica. Io non riesco a provare compassione per chi si arrende, chi getta via un bene così bello e prezioso per certe motivazioni, ho quasi avuto l'idea leggendo la lettera di trovarmi di fronte ad un bambino viziato a cui non è stata mantenuta una promessa, so che probabilmente l'ho interpretata male io... Ma ho trovato il suo gesto fortemente immaturo ed egoistico e se lo posso essere anche io, mi auguro che almeno abbia donato gli organi e si sia reso utile alla società offrendo possibilità di vivere a chi vuole continuare a farlo.

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    1. Al netto del giudizio duro, che posso capire vista la tua situazione, il tuo intervento è senza dubbio tra i più preziosi.
      Grazie di cuore.

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    2. Ma figurati sommo, ti leggo e ti seguo sempre molto volentieri e quando ho qualcosa da dire non mi faccio problemi a scrivere un commento :)

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  11. Io sono ancora nella comfort zone, studio all'università e ho ancora un percorso lungo da fare. Ma ammetto di avere molta paura di cosa troverò (o meglio non troverò) alla fine, visto che non frequento una facoltà che garantisce un lavoro facilmente. Questa lettera ha un po' amplificato questa paura. Al contempo, temo che peggio di non trovare di che vivere con ciò che ho studiato ci sia vivere facendo qualcosa che non ti piace. Ma il mondo è fatto così, e come ho ben studiato sopravvive chi si adatta meglio...sopravviverò?

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  12. Reputo innaturali alcune delle idee espresse dal ragazzo e anche qualche affermazione in quest' articolo.

    Pero' sono ammirato dal suo gesto. E' un colpo forte, da ribelle!
    Ha dato un cazzotto alla societa'

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  13. Credo che abbiamo assistito ad una dimostrazione palese di Darwinismo sociale.

    Riporto giusto la definizione, perchè credo sia calzante.

    "Può sembrare inclemente che un lavoratore reso inabile dalla malattia alla competizione con i suoi simili, debba sopportare il peso delle privazioni. Può sembrare inclemente che una vedova o un orfano debbano essere lasciati alla lotta per la sopravvivenza [struggle for life and death]. Ciò nonostante, quando siano viste non separatamente, ma in connessione con gli interessi dell'umanità universale, queste fatalità sono piene della più alta beneficenza – la stessa beneficenza che porta precocemente alla tomba i bambini di genitori malati, che sceglie i poveri di spirito, gli intemperanti e i debilitati come vittime di un'epidemia."

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    1. Il piccolo problema è che il darwinismo sociale è un costrutto ideologico che non ha assolutamente nulla di scientifico - funziona perché ci crediamo.

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  14. Il miglior articolo del tuo "nuovo corso". Argomento davvero molto toccante e delicato,mi limito a darti ragione senza aggiungere nulla.

    L'unica cosa che mi sento di dire è che il suicidio,a mio parere,è una soluzione inaccettabile,sia per rispetto di se stessi(frase mainstream ma si,"la vita è bella,godiamocela senza mai arrenderci ecc ecc") sia per rispetto delle persone che ci vogliono bene.

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    1. Come detto ad altri (e in altre sedi) credo sia una questione di sensibilità. Io personalmente non ho la "coscienza" di giudicare un gesto del genere, anche perchè "noi" non siamo e non potevamo sapere che cosa Michele aveva nel cuore.

      Ci sarebbero poi molte riflessioni da fare su certe scelte morali, e come queste vengono viste dalla società a seconda dei luoghi in cui ci troviamo.

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