A cura di Raffaele "El Rafko" Sergi
Sarò sincero: non avevo la più pallida idea di come cominciare questo post; tale è l'effetto che "L'Illusionista" è riuscito a suscitarmi. La verità è che tutto ciò che leggerete nelle prossime righe sarà per la maggior parte totalmente inutile, perché è praticamente impossibile pensare di circoscrivere un film del genere in una prigione di parole. Sarebbe come cercare di ingabbiare il volo di una colomba per ammirarne l'eleganza, o di catturare la luce del sole nel riflesso di uno specchio. E "L'Illusionista" è una colomba che vola, ma senza librarsi maestosamente in cielo: vola basso. È una stella che brilla di luce propria, ma senza abbagliare la vista. Non deve essere descritto, né recensito, né spiegato: deve essere visto, ascoltato, sentito. Va capito. E, soprattutto, deve essere vissuto in prima persona, per poterne cogliere ogni tratto, ogni sfumatura, ogni lieve e delicata atmosfera.
Siamo nel 1959. A cavallo tra la Francia e la Gran Bretagna, un anziano illusionista, distinto signore francese, vaga senza una meta precisa, rinnegato da un mondo che sembra non avere più spazio per lui e per le sue magie. Alla ricerca di un pubblico ancora in grado di apprezzare il suo talento, ormai annichilito dalla crescita esponenziale e dall'ascendente delle rock star (i Britoons nella fattispecie, chiaro riferimento ai Beatles), giunge in un paesino remoto ed incontaminato della Scozia, dove incrocia la strada della giovane Alice. Timida ed impacciata, dal carattere benigno e profondamente ingenuo, Alice resta affascinata dall'esuberanza dell'anziano illusionista, che decide di accoglierla sotto la sua ala protettiva come una figlia, fungendo da figura paterna. I due, giunti in una Edimburgo dalle due facce, una sfarzosa ed elegante, l'altra fragile e depressa nel tema dell'abbandono e della dimenticanza, inizieranno una breve ma intensa convivenza familiare che li porterà a sostenersi a vicenda, pur con ruoli e responsabilità diverse. In un'aria appesantita dalle tensioni sociopolitiche della Guerra Fredda (ben visibili alcuni cartelli "COULD IT BE WAR" e "Khrushchev and Nixon have war of words"), la crescita interiore di Alice come donna, e le difficoltà sempre crescenti dell'illusionista nel trovare posto in una vita che lo respinge, porterà ad un finale intriso di tristezza ma al tempo stesso di speranza, col sopraggiungere di un cambiamento che appare imminente.
I caratteri distintivi de "L'Illusionista" sono tanti. A ben pensarci, nonostante la natura semplice, diretta, alle volte struggente, sempre costante, sono talmente tanti che si fatica a capire come riescano a stare così bene tutti insieme, senza collimare fra loro. È una fiaba, perché ne contiene le impronte più candide, pure ed immacolate; è folklore, perché la tela su cui è dipinto ha quel sapore caldo, antico e familiare che, come un sogno, riesce a far tornare bambini rievocando alla memoria dei ricordi sopiti, quasi perduti; è poesia, perché possiede la capacità di esprimere un concetto, un pensiero, una storia che il più abile degli oratori non riuscirebbe ad enunciare con semplici parole; è il classico "Odi et Amo" catulliano, perché così come lo ami per la sua straordinaria bellezza, allo stesso modo lo odi per la sua immensa malinconia; è imprevedibile pur nella sua semplicità; è illusione e disillusione, incanto e disincanto; è slapstick nella sua mimica e nella sua raffinata comicità; è un vaudeville sul viale del tramonto, un teatro a fari spenti. Ma è anche di più: è il disegno che assurge al ruolo di dialogo come forma di espressione, è l'arte che si supera, trasformandosi in qualcosa di diverso. È il bagliore di una fenice che muore per non rinascere, come l'esplosione di un fuoco d'artificio. Un treno che viaggia nostalgico senza una meta precisa, durante una pioggia notturna che non ha inizio e non ha fine. Un'immagine, un suono, un'evocazione troppo alta, troppo importante, troppo, in tutti i sensi, per poter essere semplicemente narrata.
L'assenza quasi totale di un dialogo parlato, con l'animazione a farla da padrone nel trasmettere linguaggi ed emozioni, è l'elemento che più di ogni altro tende a rendere il film universale. Pantomima pura, fattore quasi impensabile in un cinema odierno che guarda con interesse crescente all'apparenza più che alla sostanza, come d'altronde Chomet ci aveva già abituati quasi 10 anni fa col suo capolavoro "Appuntamento a Belleville".
Strizzando l'occhio all'indimenticato ed indimenticabile Jacques Tati, al secolo Jacques Tatischeff, Sylvan Chomet plasma "L'Illusionista" con le maggiori caratterestiche che furono del regista e mimo francese, facendo coesistere anche aspetti diametralmente opposti fra loro, portando così alla ribalta una storia scritta oltre mezzo secolo fa dallo stesso Tati e che non ha mai visto la luce.
L'illusionista è un personaggio che funziona, non perché è eroico, misterioso o simpatico, ma perché è reale: dedito al sacrificio, e riciclando il proprio talento e la propria passione per esigenze forzate della vita, affronta le difficoltà che gli si parano davanti in maniera serena, pur mantenendo sempre un atteggiamento coerente e professionale. Patisce la vita ma continua a viverla, percorrendo lo stesso sentiero che altri, nell'arrendevolezza e nella difficoltà, hanno abbandonato anzitempo. Particolarmente suggestivi, sotto questo frangente, le figure del clown depresso che tenta - invano - il suicidio, o il marionettista che si dà all'alcool dopo aver svenduto la propria marionetta, poi svalutata col passare del tempo. Cliché sempre d'effetto, mai banali.
Alice, reale anch'essa, sintetizza invece la genuinità, ma anche l'evoluzione, il cambiamento per amore del cambiamento, come trasformazione naturale. È una cometa folgorante, una scia improntata a stravolgere, pur nella propria semplicità d'animo, ed a fornire nuova linfa alle fondamenta di una filosofia e di un'esistenza ormai alla fine, quasi al collasso. L'impronta perfetta di un capolavoro di imperfezione, nota struggente di una melodia drammatica, dolce e nostalgica.
In conclusione, "L'Illusionista" è una di quelle perle cosiddette di nicchia che non otterrà mai i riflettori che meriterebbe. Un'opera splendida, estremamente raffinata, che restituisce un po' di sfarzo e di genuinità ad un mondo, quello dell'animazione, sempre più commerciale ed inconcreto.
Sarò sincero: non avevo la più pallida idea di come cominciare questo post; tale è l'effetto che "L'Illusionista" è riuscito a suscitarmi. La verità è che tutto ciò che leggerete nelle prossime righe sarà per la maggior parte totalmente inutile, perché è praticamente impossibile pensare di circoscrivere un film del genere in una prigione di parole. Sarebbe come cercare di ingabbiare il volo di una colomba per ammirarne l'eleganza, o di catturare la luce del sole nel riflesso di uno specchio. E "L'Illusionista" è una colomba che vola, ma senza librarsi maestosamente in cielo: vola basso. È una stella che brilla di luce propria, ma senza abbagliare la vista. Non deve essere descritto, né recensito, né spiegato: deve essere visto, ascoltato, sentito. Va capito. E, soprattutto, deve essere vissuto in prima persona, per poterne cogliere ogni tratto, ogni sfumatura, ogni lieve e delicata atmosfera.
Siamo nel 1959. A cavallo tra la Francia e la Gran Bretagna, un anziano illusionista, distinto signore francese, vaga senza una meta precisa, rinnegato da un mondo che sembra non avere più spazio per lui e per le sue magie. Alla ricerca di un pubblico ancora in grado di apprezzare il suo talento, ormai annichilito dalla crescita esponenziale e dall'ascendente delle rock star (i Britoons nella fattispecie, chiaro riferimento ai Beatles), giunge in un paesino remoto ed incontaminato della Scozia, dove incrocia la strada della giovane Alice. Timida ed impacciata, dal carattere benigno e profondamente ingenuo, Alice resta affascinata dall'esuberanza dell'anziano illusionista, che decide di accoglierla sotto la sua ala protettiva come una figlia, fungendo da figura paterna. I due, giunti in una Edimburgo dalle due facce, una sfarzosa ed elegante, l'altra fragile e depressa nel tema dell'abbandono e della dimenticanza, inizieranno una breve ma intensa convivenza familiare che li porterà a sostenersi a vicenda, pur con ruoli e responsabilità diverse. In un'aria appesantita dalle tensioni sociopolitiche della Guerra Fredda (ben visibili alcuni cartelli "COULD IT BE WAR" e "Khrushchev and Nixon have war of words"), la crescita interiore di Alice come donna, e le difficoltà sempre crescenti dell'illusionista nel trovare posto in una vita che lo respinge, porterà ad un finale intriso di tristezza ma al tempo stesso di speranza, col sopraggiungere di un cambiamento che appare imminente.
I caratteri distintivi de "L'Illusionista" sono tanti. A ben pensarci, nonostante la natura semplice, diretta, alle volte struggente, sempre costante, sono talmente tanti che si fatica a capire come riescano a stare così bene tutti insieme, senza collimare fra loro. È una fiaba, perché ne contiene le impronte più candide, pure ed immacolate; è folklore, perché la tela su cui è dipinto ha quel sapore caldo, antico e familiare che, come un sogno, riesce a far tornare bambini rievocando alla memoria dei ricordi sopiti, quasi perduti; è poesia, perché possiede la capacità di esprimere un concetto, un pensiero, una storia che il più abile degli oratori non riuscirebbe ad enunciare con semplici parole; è il classico "Odi et Amo" catulliano, perché così come lo ami per la sua straordinaria bellezza, allo stesso modo lo odi per la sua immensa malinconia; è imprevedibile pur nella sua semplicità; è illusione e disillusione, incanto e disincanto; è slapstick nella sua mimica e nella sua raffinata comicità; è un vaudeville sul viale del tramonto, un teatro a fari spenti. Ma è anche di più: è il disegno che assurge al ruolo di dialogo come forma di espressione, è l'arte che si supera, trasformandosi in qualcosa di diverso. È il bagliore di una fenice che muore per non rinascere, come l'esplosione di un fuoco d'artificio. Un treno che viaggia nostalgico senza una meta precisa, durante una pioggia notturna che non ha inizio e non ha fine. Un'immagine, un suono, un'evocazione troppo alta, troppo importante, troppo, in tutti i sensi, per poter essere semplicemente narrata.
L'assenza quasi totale di un dialogo parlato, con l'animazione a farla da padrone nel trasmettere linguaggi ed emozioni, è l'elemento che più di ogni altro tende a rendere il film universale. Pantomima pura, fattore quasi impensabile in un cinema odierno che guarda con interesse crescente all'apparenza più che alla sostanza, come d'altronde Chomet ci aveva già abituati quasi 10 anni fa col suo capolavoro "Appuntamento a Belleville".
Strizzando l'occhio all'indimenticato ed indimenticabile Jacques Tati, al secolo Jacques Tatischeff, Sylvan Chomet plasma "L'Illusionista" con le maggiori caratterestiche che furono del regista e mimo francese, facendo coesistere anche aspetti diametralmente opposti fra loro, portando così alla ribalta una storia scritta oltre mezzo secolo fa dallo stesso Tati e che non ha mai visto la luce.
L'illusionista è un personaggio che funziona, non perché è eroico, misterioso o simpatico, ma perché è reale: dedito al sacrificio, e riciclando il proprio talento e la propria passione per esigenze forzate della vita, affronta le difficoltà che gli si parano davanti in maniera serena, pur mantenendo sempre un atteggiamento coerente e professionale. Patisce la vita ma continua a viverla, percorrendo lo stesso sentiero che altri, nell'arrendevolezza e nella difficoltà, hanno abbandonato anzitempo. Particolarmente suggestivi, sotto questo frangente, le figure del clown depresso che tenta - invano - il suicidio, o il marionettista che si dà all'alcool dopo aver svenduto la propria marionetta, poi svalutata col passare del tempo. Cliché sempre d'effetto, mai banali.
Alice, reale anch'essa, sintetizza invece la genuinità, ma anche l'evoluzione, il cambiamento per amore del cambiamento, come trasformazione naturale. È una cometa folgorante, una scia improntata a stravolgere, pur nella propria semplicità d'animo, ed a fornire nuova linfa alle fondamenta di una filosofia e di un'esistenza ormai alla fine, quasi al collasso. L'impronta perfetta di un capolavoro di imperfezione, nota struggente di una melodia drammatica, dolce e nostalgica.
In conclusione, "L'Illusionista" è una di quelle perle cosiddette di nicchia che non otterrà mai i riflettori che meriterebbe. Un'opera splendida, estremamente raffinata, che restituisce un po' di sfarzo e di genuinità ad un mondo, quello dell'animazione, sempre più commerciale ed inconcreto.
e un film che vorrei vedere ma non riesco a trovarlo in italino tu dovve l'hai trovato
RispondiEliminaPurtroppo la recensione non è mia, ma di Raffaele. Appena riesco a trovare un link per il download (o a farmelo dire da Raffaele), te lo linko volentieri.
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